Questa l'introduzione di Maria Grazia Giannichedda al libro di Daniele Pulino "Prima della 180. Psichiatri amministratori e politica, 1968-1978" (edizioni alpha beta verlag, settembre 2016).
"Anche chi ha vissuto gli anni precedenti la riforma psichiatrica rimane colpito, leggendo oggi la ricerca di Daniele Pulino, da quanto numerose siano state in Italia le “esperienze”, così si definivano all’epoca, di apertura dei manicomi e di impostazione di interventi psichiatrici fuori dagli istituti, nel “territorio”, come allora si cominciò a dire. La ricerca prende in esame una quindicina di queste esperienze, le più note che furono definite “esemplari” ma anche alcune altre tra le tante che nacquero in contesti diversi e attraverso le strade più varie, e che diedero inizio a processi di cambiamento che a volte proseguirono fino alla riforma, altre volte si spensero o furono ridimensionate prima, avendo tuttavia realizzato passaggi di rilievo - dall’abbandono dei progetti di restauro dei manicomi o di costruzione di nuove strutture di ricovero all’avvio di programmi di riorganizzazione degli istituti, alla sperimentazione di interventi nel territorio. Queste tante esperienze di cambiamento dell’istituzione pubblica, che costituiscono un caso originale e unico nel panorama dei paesi che hanno riformato la psichiatria nella seconda metà del secolo scorso, si svilupparono in gran parte negli anni dei movimenti sociali, ma sarebbe un errore rubricarle come mobilitazioni dal basso, che pure ci furono anche in questo campo - dall’occupazione del manicomio di Parma da parte del movimento studentesco all’autogestione di un reparto, il Padiglione 25 del Santa Maria della Pietà di Roma, portata avanti per un anno da un gruppo di giovani infermieri. Ma le esperienze che questo libro ricostruisce sono tutt’altro, hanno come protagonisti direttori e primari di ospedale psichiatrico, presidenti e assessori delle amministrazioni provinciali, ovvero esponenti dei due poteri che “hanno dominato tutta la storia della medicina mentale”, come si dice nell’esergo di Robert Castel. E’ facile avere nostalgia oggi di quell’Italia in cui una parte dei suoi ceti dirigenti cercava di realizzare innovazioni che avessero una qualità precisa, quella di ridurre lo scarto tra le istituzioni pubbliche e la Costituzione. Ma bisogna anche riconoscere che questo fiorire di esperienze non segnala solo una relativa vivacità tra gli psichiatri e nelle istituzioni locali, soprattutto in quelle governate dalla sinistra ma non solo. Essa ha molto a che vedere con l’arretratezza della psichiatria italiana e con la lentezza dei provvedimenti di riforma: il primo, la legge 431, è del ’68 e fu di portata ridotta, anche se contribuì non poco a mettere in moto cambiamenti. Ma com’è noto ci vollero altri dieci anni per arrivare alla “legge 180” e alla riforma sanitaria, e questo finale di partita così lungo consentì alle esperienze di cambiamento di moltiplicarsi e a quelle più forti di crescere, di mettere a regime strumenti di azione in alcuni casi nuovi e di assumere ciascuna una fisionomia propria che delineava, anche esplicitamente, il futuro per il quale stava lavorando. Un futuro che in una certa misura incominciò allora, in quegli anni prima della riforma, ai quali è utile ritornare sia per rimettere a fuoco quella che allora fu considerata la posta in gioco del cambiamento, sia per valutare come è cambiata, in questi quaranta anni, la psichiatria e le sue istituzioni.
Questo lavoro di Pulino costituisce uno stimolo e un contributo in questa direzione, e questa è la prima delle buone ragioni per cui vale la pena di fermare l’attenzione su questo libro e augurarsi che sia seguito da studi analoghi. La seconda buona ragione sta nel fatto che finalmente un ricercatore ha preso in mano il problema di ricostruire l’ampia geografia delle esperienze di cambiamento che hanno preceduto la riforma, con le loro diverse pratiche, culture e fortune. L’esigenza di allargare lo sguardo oltre le “esperienze esemplari” si sentiva da tempo e questo lavoro, per quanto dichiaratamente approssimato per difetto, conferma quanto sarebbe utile proseguire nell’opera di rintracciare e interpretare documenti, delibere, volantini, ricostruire e confrontare cronologie, leggere diari, fare interviste. Avendo in mente un metodo, ovviamente, e la scelta metodologica è un ulteriore elemento che rende utile questo libro.
La ricchezza delle esperienze raccolte qui emerge, infatti, grazie alla scelta del ricercatore di puntare su di esse l’attenzione lasciando sullo sfondo, volutamente, altre pur importanti componenti di quella che Babini ha chiamato la “rivoluzione psichiatrica”[1] italiana. Questa si sviluppò su molti piani e vi contribuirono una pluralità di figure: psichiatri e psicoterapeuti di orientamenti diversi, docenti universitari e intellettuali di varia estrazione, magistrati, giornalisti, artisti, oltre che i movimenti di base già citati. E’ proprio di una ricerca storica dar conto di tutti questi piani e figure. Ma questa di Pulino non vuole essere una ricerca storica. Qui il ricorso alla storia è di ordine per così dire strumentale, serve cioè allo scopo di ricostruire i connotati del sistema psichiatrico italiano, e i sommovimenti al suo interno, nella fase in cui prese forma la legge che di quel sistema stabilì nettamente la fine[2].
Il sistema psichiatrico italiano era costituito all’epoca da una rete nazionale di manicomi pubblici, “pesanti edifici eretti al limitare delle città che dominano anche un paesaggio morale”[3] avvertiva Castel ricostruendo “il congegnarsi della macchina”[4] di quello che chiamava “l’ordine psichiatrico”. Ma nel secondo dopoguerra i manicomi cominciarono a essere circondati dal tessuto urbano e il paesaggio morale su cui dovevano vigilare mutò profondamente. Eppure in tutto il mondo occidentale risorse pubbliche enormi continuarono a essere assorbite da questi istituti: in Italia nel 1970 erano in uso non meno di centomila letti secondo l’indagine dell’Unione delle province italiane. L’internamento era dunque la risposta principale se non la prima o l’unica per chi riceveva una diagnosi di disturbo mentale. Così, nonostante i miseri e contestati risultati del loro operare, i manicomi rimanevano il centro e il motore del sistema, confermati in questo ruolo dalla legislazione e non solo dall’assenza di alternative. Per questa ragione gli esperimenti che negli anni ’70 hanno cambiato, talvolta “de- istituzionalizzato” i manicomi non possono essere trattati alla stregua di uno dei tanti fuochi della “rivoluzione psichiatrica”: ne sono al contrario il punto centrale perché costituiscono, per così dire, un attacco al cuore del sistema, e solo tenendo a mente questo elemento si può capire davvero cosa accadde in quella fase della storia d’Italia in cui nacque la riforma del ’78. La ricerca di Pulino restituisce la giusta centralità ai processi di cambiamento di quegli anni dentro e intorno ai manicomi e ai dispositivi della psichiatria asilare, e apre una strada che consentirà, per approfondimenti successivi, di contribuire alla costruzione di una sorta di archeologia del presente, o almeno di alcuni dispositivi della psichiatria di oggi.
Uno dei risultati più evidenti di questo lavoro incentrato sulle esperienze di cambiamento nell’istituzione pubblica è stato quello di mettere a fuoco un personaggio solitamente evocato come comparsa: l’amministratore della Provincia, l’ente che gestì gli ospedali psichiatrici dalla legge del 1904 alla riforma del 1978. Eppure l’amministratore non è mai stato una comparsa, è stato invece a tutti gli effetti un comprimario dello psichiatra nel sistema medico – amministrativo a cui lo stato moderno affidava la gestione della follia. E anche nella fase del cambiamento molti amministratori hanno giocato appieno il loro ruolo e potere, non sono stati cioè solo oppositori o alleati degli psichiatri ma comprimari veri e propri. Pulino sottolinea come in diverse situazioni gli amministratori hanno utilizzato non solo i poteri che loro conferiva la legge ma anche le proprie risorse politiche, cioè la loro funzione di mediazione con la società politica e civile locale, e si sono mossi anche a livello nazionale cercando nuove idee e strumenti di azione, sia nei convegni che nelle esperienze in atto. Dai casi analizzati qui emerge anche un altro dato interessante e curioso: per diversi amministratori, come del resto era stato per Basaglia, l’ingresso in manicomio per la prima volta fu un’esperienza tanto inattesa quanto scioccante, e per alcuni di loro fu una specie di “via di damasco” che determinò le scelte successive e le carriere. Anche tra gli amministratori, insomma, vi furono protagonisti del cambiamento, anche se meno visibili degli psichiatri, che in Italia conquistarono, con azioni intenzionali, uno spazio del tutto inusuale nel discorso pubblico.
Ma il punto non è rendere giustizia all’amministratore puntando i riflettori su questo ruolo e sulle persone che lo hanno agito. Il punto è che quando si dimentica questo personaggio o lo si sottovaluta come semplice burocrate si corre il rischio, in realtà, di dimenticare o sottovalutare il processo storico che ha costruito, definito e normato sia l’amministratore che il medico e li ha legati insieme, li ha resi attori interdipendenti di un sistema costruito, nel suo complesso, in funzione del ruolo assegnato alla psichiatria. Detto altrimenti: le esperienze presentate in questo libro hanno cambiato o tentato di cambiare dei pezzi, degli ingranaggi della macchina produttiva del sistema manicomiale per cercare di incidere, in questo modo, sulla funzione e sul funzionamento della psichiatria, per cercare cioè di privilegiare la “cura” contro la “custodia”. Ma questi cambiamenti negli ingranaggi del sistema – concretamente: la modifica del regime dei sussidi, abolizione dell’ergoterapia, la soppressione di posti letto, l’istituzione di centri di salute mentale ecc. – implicava un’azione concertata di psichiatri e amministratori, senza la quale le esperienze sarebbero state costrette a fermarsi sulla soglia della contestazione, della “negazione”, come la storia di Gorizia insegna. In sostanza, gli psichiatri hanno potuto dimostrare, per dirla con Basaglia, che “si può assistere la persona folle in un altro modo”[5], in quanto e dove sono riusciti a organizzare, con gli amministratori, questo modo “altro”, fatto di luoghi, risorse e regole (di nuova “istituzione”) non meno che di attitudini e culture.
Questo lavoro di cambiamento degli ingranaggi implicava inoltre un confronto continuo, talvolta scontro, con gli altri pezzi della macchina e con il sistema psichiatrico nel suo complesso, della cui esistenza e cogenza hanno sempre avuto una consapevolezza forte, anche grazie all’attivismo della magistratura, sia i medici che gli amministratori. I quali avevano pure in comune la convinzione che il sistema andasse cambiato innanzi tutto attraverso una riforma della legislazione, che toccasse il sistema di tutela della salute nel suo complesso. Questa richiesta emergeva in ogni occasione da tutte le esperienze, che maturavano tuttavia idee diverse su come il sistema dovesse essere modificato e seguivano strade diverse per cambiare l’esistente e preparare il futuro.
Negli anni ’70 la battaglia per la legge di riforma, sostenuta da un movimento che andava ben oltre il perimetro delle esperienze di cambiamento, ha attutito la percezione di queste differenze, che anche tra il ’78 e il ‘98 - i vent’anni del lungo addio ai manicomi - sono state in secondo piano rispetto al problema principale, che era giustamente quello di completare la transizione spingendo tutte le regioni a creare i servizi previsti dai progetti obiettivo ministeriali e dalle leggi regionali stesse. Ma oggi può dirsi compiuta anche in Italia quella che Castel ha definito “la prima metamorfosi della medicina mentale dal tempo della santificazione, da parte delle legislazioni, della sintesi espressa dal manicomio”[6]. Castel, che scriveva queste parole nel 1976, era convinto che questa metamorfosi, iniziata nel secondo dopoguerra in Francia, Regno Unito e Stati Uniti e in corso in Italia sotto i suoi occhi, fosse “una trasformazione decisiva”[7]. Ma a cosa ha dato luogo questa trasformazione? Si tratta di “una mutazione, di una rivoluzione (…) o piuttosto di un aggiornamento della medicina mentale”, cioè dell’affermarsi di “un modello alternativo globale che si pone come sostitutivo del vecchio sistema per assumerne la totalità delle funzioni, con qualche aggiunta in più”[8]? Rispondere a queste domande è un esercizio particolarmente interessante se riferito all’Italia, che è il paese in cui il sistema asilare ha subito la più pesante delegittimazione normativa e culturale, ed è anche il paese in cui sono nati, nel cuore del sistema, i più numerosi e duraturi esperimenti che si ponevano come “alternativi” ad esso. Ma questi esperimenti come hanno interagito con lo svilupparsi, il compiersi della metamorfosi di cui sono stati una parte, magari non secondaria ma pur sempre una parte? E prima ancora: in che senso questi esperimenti erano “alternativi” al sistema che contestavano, ovvero quali erano gli strumenti originali che mettevano in opera per realizzare esiti nuovi e diversi?
Per rispondere a queste domande, e ad altre che sorgerebbero a cascata, bisogna cominciare da dove questo libro è partito, approfondire la ricerca e allargarla, e come degli archeologi bisogna disseppellire gli oggetti anche più piccoli e sforzarsi di eliminare la polvere delle frasi fatte."
Maria Grazia Giannichedda
[1] Valeria P.Babini Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Bologna, 2009, pag.177
[2] Vale la pena di ricordarlo: la legge di riforma chiuse i manicomi ( art.64/833) ed eliminò l’internamento ridefinendo in modo radicalmente nuovo i principi che devono orientare il trattamento psichiatrico obbligatorio ( artt. 33,34,35 /833)
[3] Robert Castel L’ordine psichiatrico. L’epoca d’oro dell’alienismo, Milano, 1980 pag. 180 ( prima edizione Les Editions de Minuit, 1976 )
[4] ivi, pag. 194
[5] Franco Basaglia Conferenze brasiliane, Milano, 2000, pag.143
[6] Castel, op. cit. pag.6
[7] ivi pag..6
[8] ivi pag. 7