Il manager UMBERTO MOSSO e l'attrice VALERIA BRUNI TEDESCHI hanno ricordato in questi giorni Franco Basaglia. Qui di seguito i loro interventi.

Scrive Umberto Mosso* “Franco. L’ultima volta che ci siamo visti voleva mostrarmi l’appartamento che aveva trovato a Roma, alla salita del Grillo. Avevamo pranzato, come capitava spesso quando era a Roma, in una trattoria in piazza Farnese, chiacchierando di tutto un po’. Roma, Trieste, Venezia, persone, politica e storie. “Ndemo a ciacoear de Roma”, mi diceva ricordando compiaciuto le mie origini veneziane, e giù a ridere, anche delle difficoltà che incontrava nell’ambiente romano, sempre con quella faccia dal sorriso largo, quegli occhi dallo sguardo aperto, interrogativo, ironico e spesso autoironico. Certe volte mi dava l’idea di un bambino che, a ragion veduta, l’aveva fatta grossa e ne misurava l’effetto, immaginando la mossa seguente da fare. Uno stratega dello spiazzamento, sempre con un’idea sorprendente alla quale riusciva a dare consistenza, magari partendo da un paradosso, con questa sua urgenza di portare sempre una grande Visione a diventare un punto di vista reale, un materiale di lavoro concreto.

“Accompagnami, che ti faccio vedere gli arazzi di Mariano Fortuny che mi sono portato da Venezia”. “Ti accompagno ma non posso salire, ho una riunione rognosa e sono in ritardo, gli arazzi li vedrò quando li avrai sistemati”. Non ci siamo più rivisti. Tornava, il giorno dopo, a Venezia e dopo un paio di settimane arrivò la notizia della sua malattia.

Quell’ultimo nostro giorno era uno di quelle belle primavere romane, luminose, quando l’azzurro, il giallo e l’avorio del barocco si mescolano ai colori del cotto, delle azalee, dei pini. Franco era incantato da Roma, un incantamento che solo chi è nato e cresciuto nello splendore di Venezia sa esprimere senza invidia, senza parole, con lo stesso sguardo di chi conosce da sempre quella luce e quei colori e li ritrova, sorprendentemente, lontano da casa. Come Fortuny, appunto.

Ai primi di agosto andammo, con Giorgio Cogliati, a trovarlo a casa sua, ai palazzi Mocenigo, in “volta de Canal”, ma non potemmo vederlo. La moglie Franca ci accolse con piacere ma, con dolore, ci disse che Franco riposava e non voleva svegliarlo. Ci fece capire che difficilmente ci avrebbe riconosciuto e sicuramente non sarebbe riuscito a parlarci. Capimmo che, ormai, era arrivato in quella fase della vita nella quale sei solo con te stesso e con gli affetti più cari. Dopo meno di due settimane non c’era più e tornai a Venezia per l’ultimo saluto.

Passai la notte precedente al funerale a casa di mia zia, una vecchia borghese veneziana, che, come sempre, mi accolse con grande, ricambiato, affetto. Parlammo, prima di ritirarmi nella stanza piena di ricordi nella quale avevo dormito mille volte da bambino. Quando le dissi che ero a Venezia per il funerale di Franco Basaglia si accigliò e come per rimproverarmi disse “sei venuto da Roma per quel comunista? Una grande famiglia i Basaglia, ma lui aveva dirazzato, stava sempre in Campo santo Stefano a perder tempo ciacoeando coi gondoieri. Poi xe andà fora de Venesia, a far danno coi mati. Il male che lo ha preso in testa è stata la punizione di dio”. Feci fatica a rispondere, poi pensai che Franco era abituato a sentirsi dire le cose peggiori. “Zia non essere cattiva, Basaglia era un uomo saggio e buono, non sai quanto bene ha fatto a tante persone” e non ne parlammo più.

Le ciacoe in campo coi gondoieri. Mi ricordai un accenno su questo, quando mi raccontava della sua formazione politica. Ancora oggi me lo immagino così, ragazzo curioso, che ascolta i discorsi di quei lavoratori, che vivono sospesi tra l’acqua e il cielo, come lui lavorerà da grande, per portare il cielo in terra. Un’immagine di Franco che non ho mai visto realmente, nata nella mia mente, tuttavia così nitida, bella, suscitata quella sera da parole cattive, come tante dette su di lui, che invece sapeva guardare gli avversari senza cattiveria, ma solo con più ironia e fermezza, perché li guardava con lo stesso sguardo aperto, penetrante, curioso che regalava agli amici.

Valeria Bruni Tedeschi ha ringraziato, giustamente, Franco Basaglia “per aver cambiato l’approccio alla malattia mentale”. Io lo ringrazio, anche, per aver cambiato l’approccio alla politica. Per molti, compreso me, anche se non gli sono stato, in questo, sempre fedele. Da lui, per primo, ho sentito l’esortazione a non identificare gli avversari col nemico da annientare, a mettere al centro innanzitutto l’insopportabilità della sofferenza umana, in ogni sua forma, perché quella psichiatrica è solo il frammento attuale di una sofferenza più grande e precedente che l’ha prodotta, a considerare che la politica ha un limite oltre il quale c’è la persona tutta intera, che non è solo politica e che non va solo politicamente vista, pensata, trattata.

Alla fin fine, io che non sono uno psichiatra, né un politico professionale, di Franco ho capito questo, un approccio alle persone con un grande amore laico, a partire da chi soffre, comunque e dovunque.

Lo so, detta così farà inorridire molti, quelli che hanno inventato l’orrendo termine “buonismo”, una somma idiozia, solo per legittimare il loro “cattivismo” ottuso.

Eravamo seduti vicini, in una grande sala del Senato dove si riuniva la commissione di “esperti” che veniva consultata dai parlamentari impegnati a scrivere quella che diventerà la legge 180, la così detta “legge Basaglia”. Non fu facile, per lui, essere lì, cogliere un’opportunità tra tanti contrasti, politici e tecnici, resistere agli attacchi che, anche in quel contesto, gli venivano portati in modo solo più felpato, come si addiceva ai velluti del luogo, ma non meno insidiosi e duri. “Non voglio che questa legge diventi un fatto personale, non sono io il centro della questione, ormai siamo in tanti, anche con esperienze differenti, ma convergenti su un punto, il manicomio non cura niente, non è quello il modo di trattare le persone, quel modo peggiora tutto, serve solo a moltiplicare la sofferenza, a trattare le persone come rifiuti da nascondere per la buona pace dei benpensanti. Fare la legge va bene, ma soprattutto per sancire la necessità di una svolta, ma a noi servono soprattutto amministratori disponibili, capaci, dotati di volontà politica e risorse per cambiare i servizi”. “Come il presidente DC della Provincia di Trieste”, diceva provocatoriamente ai conservatori.

Non fu una legge perfetta, fu molto osteggiata culturalmente, soprattutto nella sua applicazione. Credo che, in alcuni casi, si consumò una sorta di “vendetta” consistente nell’avviare a chiusura alcuni manicomi senza aver realizzato, contemporaneamente, i servizi alternativi che la legge prevedeva. Purtroppo, in alcuni casi, questa sorta di “vendetta” vide la convergenza, ovviamente per fini eterogenei, dei fautori del “tutto e subito”, come una sorta di punizione nei confronti della società borghese e perbenista, con quelli del “niente e mai”, come un calcio di rigore battuto contro i “basagliani”, per dimostrare all’opinione pubblica quanto fossero errate le teorie di Franco. Che, invece, sarebbe bastato conoscere le esperienze vive di Gorizia, Trieste e tante altre per capire che non erano teorie, ma concrete e belle realtà.

A Roma, con Luigi Petroselli e Renato Nicolini, Franco voleva costruire un sistema nuovo, cimentarsi con una dimensione metropolitana, non solo per estensione, ma soprattutto per la novità dei disagi urbani che emergevano, in quegli anni, nella contraddizione tra cultura dell’innovazione e cultura dei diritti. Eravamo agli inizi degli anni ’80, il terrorismo era ai suoi ultimi conati, ma aveva prodotto già la stretta conservatrice del nascente pentapartito. Un progetto per Roma, quello di Petroselli e Basaglia, appena abbozzato, in controtendenza, per questo ci affascinava. Conversazioni attorno a un tavolo, con appuntamenti, ricordo una volta, anche alle tre di notte.

Morirono entrambi, Franco e Petroselli, a distanza di un anno e di quel progetto, mai nato, non se ne fece più niente. Ma questo è un altro discorso”.

 

* Umberto Mosso, architetto e manager della Risorse per Roma spa, è stato responsabile sanità della Federazione romana del PCI e in questa veste interlocutore di Basaglia nel suo breve periodo di lavoro a Roma

 

 

Valeria Bruni Tedeschi, premiata col Davide di Donatello 2017 come migliore attrice protagonista del film La pazza gioia di Paolo Virzì, dal palco della cerimonia ha ringraziato Franco Basaglia “per aver cambiato l’approccio alla malattia mentale”.

Qui il video del suo intervento.