Si ritorna a parlare di Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), come ciclicamente da quasi quarant'anni. Ma prima di ogni altra considerazione, vediamo quanti se ne fanno oggi, e dove, attraverso i dati elaborati da DANIELE PULINO*.

Discutere di Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) a prescindere dalla concreta geografia dei TSO effettuati in Italia significa partire da una visuale sbagliata, che guarda al TSO senza indagare il funzionamento complessivo dei servizi di salute mentale incaricati del difficile compito di garantire il diritto alla salute. Certo, le statistiche puntuali che dovrebbero consentire una lettura del loro funzionamento sono molto deboli, quasi un sintomo della mancata volontà di governo del settore. Ciononostante, proprio sui TSO esiste un elemento che dovrebbe far riflettere: l’incidenza delle Dimissioni di pazienti in TSO[1], che nelle regioni italiane presenta una estrema variabilità. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2015 i TSO (vedi mappa 1) vanno da meno di 10 ogni 100.000 abitanti  ̶  in Friuli Venezia Giulia (3,7), Trentino Alto Adige (4,9), Basilicata (6,1), Veneto (8,1), Lombardia (8,2) e Toscana (9,9)  ̶  a più di 20 in Sardegna, Emilia Romagna, Val D’Aosta, Sicilia. Dato che testimonia un’eterogeneità che andando a livello provinciale diviene ancora più visibile (vedi mappa 2). Una differenza significativa che, come sottolinea un’analisi recente condotta dalla Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica, ha una relazione diretta con il carico assistenziale[2], e dunque con problemi che attengono alle dotazioni di personale e servizi. In altre parole, ci sono meno TSO dove esistono politiche che sostengono il funzionamento del servizio pubblico.

Nel campo della salute mentale, produrre libertà significa realizzare politiche, che tuttavia dovrebbero prevedere una contestuale modifica delle culture professionali. Perché, come spesso chi concentra l’attenzione sui TSO dimentica di sottolineare, nei servizi psichiatrici esistono forme di restrizione della libertà personale, non legittimate dalla normativa, come ad esempio la contenzione, che coinvolgono persone in regime di ricovero volontario. Ma anche in questo caso il panorama nazionale non è uniforme. Esistono in giro per l’Italia esperienze di servizi psichiatrici ospedalieri, realizzate in contesti territoriali molto differenziati, nel nord come nel sud del paese, che non usano mezzi di contenzione e lavorano tenendo le porte aperte. Queste esperienze sono un lascito importante della riforma italiana del 1978, che ha decretato allora la fine dei manicomi, delle istituzioni totalitarie che ancora negli anni settanta ricoverano in Italia circa 100.000 persone. Ma il manicomio con il quale la legge italiana rompe non è riducibile allo spazio fisico dell’edificio \ istituzione. I manicomi erano e sono il frutto dell’esistenza di un dispositivo di internamento che si fonda su tre elementi: un ricovero di durata indefinita sottoposto alla responsabilità del medico e disposto da un tribunale; l’esistenza di un istituto dove i diritti della persona con malattia mentale vengono compressi in ragione della cura; la presunta pericolosità sociale della persona con un disturbo mentale come ratio del ricovero. L’ambivalenza di questo dispositivo risiede nella sua duplice natura di cura\custodia della persona e, nella prassi, la custodia prevale in modo irresistibile sulla cura. La struttura dei servizi e le disposizioni in tema di trattamenti involontari previste dalla normativa italiana hanno spezzato il dispositivo di cura e custodia eliminando la pericolosità dalla sfera dell’intervento dei servizi di salute mentale. Gli stessi TSO possono essere effettuati solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere (art. 34 L. n. 833/78) e prevedono disposizioni precise circa i diritti che devono continuare a essere riconosciuti nel corso di un ricovero ospedaliero ovvero, così come previsto dall’articolo 32 della Costituzione, devono avvenire nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura; accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato (art. 33 L. n. 833/78). In altri termini, si può sostenere che solo negli ultimi anni la cornice giuridica internazionale, spesso impropriamente richiamata, si è andata allineando con il sistema di diritti e garanzie che la normativa italiana pone come suo fondamento, pur rimanendo la più parte dei paesi ancorati al concetto arcaico della pericolosità. Certamente, il solco profondo intercorre tra queste disposizioni e alcuni casi eclatanti risiede proprio nella vischiosità di una cultura della pericolosità dura a morire, che spesso sopravvive anche nei progetti recenti che si vogliono riformatori.

Esiste però una certa superficialità nello scordare che con la riforma italiana è avvenuto un cambiamento radicale che ha portato alla realizzazione di servizi di salute mentale che ispirano la loro pratica al riconoscimento di diritti e libertà. La loro diffusione frammentaria in tutto il paese è legata a due ragioni: la regionalizzazione dei servizi sanitari; la mancanza di una volontà politica di intervenire nel sostegno di pratiche orientate alla tutela dei diritti. In un noto saggio di diversi anni fa, Norberto Bobbio[3] sosteneva che il problema dei diritti non fosse quello della loro enunciazione, ma quello della loro protezione. E accogliendo questa prospettiva occorre guardare al TSO come una questione che riguarda i diritti di cura e di libertà delle persone che vivono un’esperienza di sofferenza che può essere affrontata a partire da ciò che in Italia è stato costruito nel corso degli ultimi quarant’anni. Un problema al quale occorrerebbe rispondere non tanto attraverso enunciazioni di principio o proclami ideologici, ma attraverso l’assunzione di una responsabilità politica.

*Daniele Pulino, ricercatore sociologia politica, Università di Sassari

[1] Elaborazione su dati ISTAT 2015, estratti da I.Stat nell’aprile 2017.

[2] http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=49327

[3] Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990.